Con decreto inaudita altera parte del
14 aprile 2020, il Tribunale del lavoro di Bologna ha condannato una
società di consegne mediante piattaforma a fornire a un rider i
dispositivi di protezione individuale (guanti monouso, mascherine
protettive, gel disinfettanti e prodotti alcolici per la pulizia
dello zaino). Secondo il giudice del lavoro, sussiste il “fumus boni
iuris” del diritto del rider alla consegna di questi dispositivi,
nonché il “periculum in mora” poiché lo svolgimento dell’attività
lavorativa in mancanza di questi dispositivi “potrebbe esporre il
ricorrente, durante il tempo occorrente per una pronuncia di merito
a pregiudizi anche irreparabili del diritto alla salute”.
La pronuncia in esame si occupa del tema della sicurezza sul lavoro
dei riders nella situazione di emergenza epidemiologica da COVID-19.
Un rider di una società di consegne mediante piattaforma ha proposto
ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. davanti al Tribunale di Bologna
chiedendo al giudice del lavoro di condannare la società a fornirgli
i dispositivi di protezione individuali contro il rischio di
contagio da COVID-19. In particolare, il ricorrente chiedeva che la
Società gli desse in dotazione guanti monouso, mascherine
protettive, gel disinfettanti e prodotti alcolici per la pulizia
dello zaino.
Il Tribunale del lavoro di Bologna ha accolto il ricorso ravvisando
il “fumus boni iuris” del diritto del rider alla consegna dei
suddetti dispositivi e il “periculum in mora”. Secondo il giudice
del lavoro lo svolgimento dell’attività lavorativa in assenza di
questi dispositivi “potrebbe esporre il ricorrente, durante il tempo
occorrente per una pronuncia di merito a pregiudizi anche
irreparabili del diritto alla salute”. Di conseguenza, ha condannato
la società, con decreto inaudita altera parte, a fornire al
ricorrente questi dispositivi, poiché la preventiva convocazione
delle parti avrebbe potuto pregiudicare la sua utile attuazione.
Di seguito le argomentazioni sulle quali si fonda la decisione del
giudice del lavoro.
Anzitutto, il Tribunale di Bologna ribadisce la natura
etero-organizzata dei rapporti di lavoro dei riders ex art. 2,
D.Lgs. 81/2015, recentemente modificato da D.L. 101/2019, convertito
dalla L. 128/2019. In particolare, il giudice del lavoro richiama la
nuova formulazione della norma che ha qualificato come
etero-organizzate tutte quelle prestazioni “prevalentemente [e non
più “esclusivamente”] personali, continuative e le cui modalità di
esecuzione sono organizzate dal committente” menzionando
espressamente il lavoro tramite piattaforme digitali ed eliminando
la locuzione “anche con riferimento ai luoghi e ai tempi di lavoro”.
Poi si sofferma sui principi espressi dalla Corte di Cassazione
chiamata, di recente, a pronunciarsi sulla questione della
qualificazione del lavoro etero-organizzato ex art. 2, D.Lgs.
81/2015 (Cass., sez. lav., 24 gennaio 2020, n. 1663). Con questa
sentenza, la Cassazione ha chiarito che, l’interprete non deve
effettuare un’indagine sistematica sulla natura autonoma o
subordinata del lavoro etero-organizzato, ma deve limitarsi ad
accertare la sussistenza di taluni indici fattuali tipici del lavoro
subordinato. In caso di esito positivo di questa verifica, il
giudice deve applicare la disciplina del lavoro subordinato anche ai
lavoratori etero-organizzati. Tra questi elementi devono essere
considerati alcuni elementi del rapporto di lavoro, indici di una
condizione di “debolezza economica” del lavoratore, e, di
conseguenza, deve essere applicata la tutela più protettiva del
lavoro subordinato. In definitiva, il giudice deve accertare la
natura etero-organizzata del rapporto e applicare le regole del
lavoro subordinato, eccezion fatta per quelle “ontologicamente
incompatibili con le fattispecie da regolare”. Tra queste regole vi
rientrano certamente le norme in materia di sicurezza e igiene,
retribuzione diretta e differita (quindi inquadramento
professionale), vincoli di orario, ferie e previdenza, come chiarito
anche dalla giurisprudenza di merito (Corte di Appello di Torino,
sez. lav., del 4 febbraio 2019, n. 26).
Ciò premesso il Tribunale di Bologna richiama il Decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri dell’11 marzo 2020. Secondo
questo DPCM è prevista la sospensione su tutto il territorio
nazionale delle attività dei servizi di ristorazione. Tuttavia, il
DPCM consente la prosecuzione della sola ristorazione con consegna a
domicilio “nel rispetto delle norme igienico – sanitarie sia per
l'attività di confezionamento che di trasporto” a tutela della
salute del collaboratore interessato “ma anche della utenza del
servizio e, con essa, della collettività intera”. Tra le
prescrizioni igienico sanitarie appare quindi ragionevole
ricomprendere l’uso dei dispositivi di protezione individuale quali
guanti, mascherine e prodotti igienizzanti, la cui adozione
nell’ambito di tutte le attività produttive viene raccomandata dallo
stesso DPCM. Dispositivi che appaiono a maggior ragione necessari
nello svolgimento delle attività che comportano il contatto con il
pubblico.
Ne consegue che il committente deve provvedere a garantire il
rispetto delle prescrizioni igienico-sanitarie previste per
l’attività di trasporto e consegna a domicilio dei prodotti
alimentari. In definitiva sussiste un obbligo di dotazione dei
dispositivi di protezione individuale al fine di garantire la tutela
della salute del rider e dei cittadini fruitori del servizio.
La sentenza in commento è conforme a un altro precedente di merito
che si è pronunciato su un caso analogo (Trib. Firenze, sez. lav.,
1° aprile 2020, n. 886). Anche il giudice del lavoro di Firenze ha
condannato la società a fornire le dotazioni di protezione
individuale al rider al fine di garantire lo svolgimento
dell’attività lavorativa in sicurezza. Allo stesso modo del giudice
del lavoro di Bologna, il Tribunale di Firenze ritiene applicabile
la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai lavoratori
etero-organizzati ex articolo 2 D.Lgs 81/2015, aderendo al più
recente orientamento della giurisprudenza di legittimità sopra
analizzato. Inoltre, il giudice del lavoro di Firenze richiama la
disciplina del Capo V-bis del D.Lgs 81/2015 relativa alla tutela del
lavoro tramite piattaforme digitali finalizzata a stabilire livelli
minimi di tutela per i lavoratori autonomi che svolgono attività di
consegna di beni per conto altrui in ambito urbano e con l’ausilio
di velocipedi o veicoli a motore attraverso piattaforme anche
digitali. In particolare, l’art. 47 septies, secondo il quale il
committente deve, a propria cura e spese, provvedere al rispetto
delle disposizioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul
lavoro di cui al D.Lgs 81/2008, nei confronti dei suddetti
lavoratori autonomi e quindi anche “il rispetto di quanto previsto
dall’art. 71 del D.Lgs 81/2008”. Con questo richiamo pare che il
giudice del lavoro di Firenze intenda estendere l’applicazione
dell’intera disciplina del Testo Unico di salute e sicurezza sul
lavoro al rapporto di lavoro dei riders. Tema che sarà, certamente,
oggetto di discussione e di approfondimento nell’ambito del giudizio
di merito.
In conclusione, la sentenza in esame chiarisce che i riders in
particolare e i lavoratori etero-organizzati in generale debbano
essere dotati dei dispositivi di protezione individuale per svolgere
le attività lavorative in sicurezza nella fase di emergenza
epidemiologica da COVID-19. Restano invece ancora alcuni dubbi su
punti potenzialmente critici che saranno probabilmente affrontati
durante il giudizio di merito. Ad esempio, non viene chiarito se
l'impresa, oltre a dotare i lavoratori etero-organizzati dei
dispositivi di protezione individuale, debba anche prevedere una
regolamentazione circa il loro utilizzo. In altri termini, non viene
chiarito se il committente debba anche prevedere apposite azioni di
vigilanza e misure organizzative favorendo la diffusione dei modelli
organizzativi e di gestione relativi all’utilizzo dei dispositivi di
protezione individuale, come avviene per i lavoratori subordinati
nel rispetto dell’art. 2087 cod. civ. e della normativa di cui al
D.Lgs 81/2008.
Su questi punti e su altri che emergeranno con il passare del tempo,
saranno preziose le prime pronunce di merito per orientare gli
interpreti.
Riferimenti normativi:
art. 700 c.p.c.
art. 2 D.Lgs 81/2015
Il buono per la spesa alimentare,
previsto quale misura emergenziale tesa a fronteggiare le difficoltà
dei soggetti più vulnerabili a soddisfare i propri bisogni primari a
causa della situazione eccezionale determinata dall’emergenza da
CoVid-19, attiene al diritto all’alimentazione, che rientra nel
nucleo insopprimibile di diritti fondamentali spettanti
necessariamente a tutte le persone in quanto tali e non può, perciò,
essere negato allo straniero sprovvisto di permesso di soggiorno. È
quanto si legge nel decreto del Tribunale di Roma del 21 aprile
2020, n. 12835
Con decreto emesso inaudita altera parte, ai sensi degli artt. 669
sexies, comma 2 c.p.c. e 700 c.p.c., il Tribunale di Roma ha
riconosciuto il diritto del ricorrente e dell’intero suo nucleo
familiare a percepire il “buono spesa” per famiglie in difficoltà
introdotto dal Comune di Roma, in applicazione dell’Ordinanza del
Capo della Protezione Civile del 29.3.2020.
Nel caso di specie, il ricorrente era giunto in Italia nel settembre
del 2016 insieme alla compagna, cittadina filippina, e ai due figli
di quest’ultima.
In seguito all’ultima gravidanza della compagna, il ricorrente era
divenuto titolare di permesso di soggiorno per cure mediche
rilasciato ai sensi dell’art. 19, comma 2, lett. d), D.Lgs.
286/1998, scaduto dopo il sesto mese di età del bambino.
A causa del sopraggiungere dell’emergenza sanitaria, il nucleo
familiare, allo stato sprovvisto di permesso di soggiorno, si era
trovato in una situazione di forte precarietà e indigenza, tanto da
rientrare nel novero di quei soggetti per i quali il Comune di Roma,
con apposito provvedimento adottato in attuazione delle misure
emergenziali governative, aveva previsto il rilascio di un “buono
spesa” per soddisfare le primarie esigenze alimentari.
Pertanto, in data 7.4.2020 il ricorrente aveva inoltrato al
competente Municipio del Comune di Roma l’apposito modulo con la
richiesta del buono spesa indicando la composizione del proprio
nucleo familiare e il proprio stato di bisogno; il 14.4.2020 aveva
inviato una seconda email specificando meglio la propria peculiare
situazione – ovvero l’assenza di permesso di soggiorno e di
residenza anagrafica – e ribadendo il proprio indirizzo di domicilio
nonché la propria assoluta condizione di disagio economico.
Ciò premesso, il ricorrente riteneva che la mancanza del regolare
permesso di soggiorno e conseguentemente della residenza lo
escludessero di fatto dai potenziali beneficiari del buono spesa,
producendo nei suoi confronti un’illegittima discriminazione.
Chiedeva, pertanto, che fosse adottato, con decreto inaudita altera
parte, stante l’estrema urgenza, il provvedimento cautelare ritenuto
più idoneo ad ammettere il ricorrente e l’intero nucleo familiare al
beneficio del buono spesa per famiglie in difficoltà introdotto dal
Comune di Roma.
Il provvedimento in rassegna ha – come detto in apertura – accolto
l’istanza del ricorrente.
In particolare, il Giudice capitolino ha richiamato l’ordinanza del
Capo del Dipartimento della Protezione Civile (OCDPC) n. 658/2020,
recante “Ulteriori interventi di protezione civile in relazione
all’emergenza relativa al rischio sanitario connesso all’insorgenza
di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, con la quale
è stato assegnato ai Comuni italiani un contributo per un totale di
400 milioni di Euro per misure urgenti di solidarietà alimentare.
Con la medesima OCPDC n. 658/2020 è stato attribuito all’ufficio dei
servizi sociali di ciascun Comune il compito di individuare “la
platea dei beneficiari ed il relativo contributo tra i nuclei
familiari più esposti agli effetti economici derivanti
dall'emergenza epidemiologica da virus Covid-19 e tra quelli in
stato di bisogno, per soddisfare le necessità più urgenti ed
essenziali con priorità per quelli non già assegnatari di sostegno
pubblico” (art. 2, comma 6).
Con Determinazione Dirigenziale n. 913 del 31 marzo 2020, poi
modificata e integrata con Determinazione n. 940 del 2 aprile 2020,
il Dipartimento delle Politiche Sociali del Comune di Roma ha
approvato l’Avviso Pubblico recante “Assegnazione del contributo
economico a favore di persone e/o famiglie in condizione di disagio
economico e sociale causato dalla situazione emergenziale in atto,
provocata dalla diffusione di agenti virali trasmissibili
(COVID-19)”, regolando i criteri e le modalità per la concessione
dei buoni spesa.
Il Giudice ha, quindi, evidenziato che la residenza nel territorio
comunale (ovvero l’impossibilità per i non residenti a raggiungere
il proprio luogo di residenza) è un requisito per usufruire del
buono spesa e ne ha tratto la conseguenza che i cittadini
extracomunitari sprovvisti di permesso di soggiorno non possono
usufruirne, essendo impossibilitati ad effettuare l’iscrizione
anagrafica.
Così ricostruito il quadro delle disposizioni che regolano l’accesso
al beneficio del “buono spesa”, il Giudice romano è passato ad
un’analitica rassegna della giurisprudenza della Corte
Costituzionale sull’estendibilità agli stranieri (anche se
irregolarmente soggiornanti) dei diritti fondamentali riconosciuti
dall’ordinamento.
Da tale rassegna si ricava che, in tema di diritti fondamentali, non
sono ammissibili discriminazioni
E’ stato, infatti, affermato dal Giudice delle Leggi che lo
straniero (anche irregolarmente soggiornante) gode di tutti i
diritti fondamentali della persona umana; con particolare riguardo
al diritto alla salute, esiste un “nucleo irriducibile”, che “quale
diritto fondamentale della persona deve essere riconosciuto anche
agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme
che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato”.
La giurisprudenza costituzionale, nell’evidenziare il carattere
universalistico dei diritti umani fondamentali, afferma che il
nucleo “minimo” di questi diritti non può essere violato e spetta a
tutte le persone in quanto tali, a prescindere dalla regolarità del
soggiorno sul territorio italiano.
Anche nella disciplina dei diritti sociali, nella quale pure la
discrezionalità del legislatore è molto più ampia che nella
disciplina dei diritti di libertà – perché sono richiesti l’uso e la
allocazione di risorse scarse - il diverso trattamento deve essere
giustificato da ragioni serie e non deve, comunque, violare quel
nucleo di diritti fondamentali che, appunto, vengono definiti
“inviolabili”.
Al riguardo, la Corte Costituzionale osserva che “è la garanzia dei
diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio
di questo a condizionarne la doverosa erogazione”.
Dunque, alla condizione della mera presenza sul territorio dello
stato consegue il riconoscimento di un novero di prestazioni
strettamente connesse alla tutela della vita umana.
Alle medesime conclusioni conducono anche i principi contenuti nelle
fonti sovranazionali.
La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
prevede che tutti i diritti previsti nella CEDU devono essere
garantiti dagli Stati parte, come stabilito all’art. 1, “ad ogni
persona sottoposta alla loro giurisdizione”.
Si pensi all’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea (CDFUE), secondo cui la dignità umana è inviolabile.
L’art. 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo,
adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre
1948, sancisce che: “Ogni individuo ha il diritto ad un tenore di
vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e
della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al
vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali
necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione,
malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di
perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla
sua volontà”.
L’art. 11 del Patto internazionale relativo ai diritti economici,
sociali e culturali e il Patto internazionale relativo ai diritti
civili e politici, con protocollo facoltativo, adottati e aperti
alla firma a New York rispettivamente il 16 e il 19 dicembre 1966,
ratificati in Italia con legge n. 881/1977, dispone: “1. Gli Stati
parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo ad
un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, che
includa un’alimentazione, un vestiario, ed un alloggio adeguati … .
2. Gli Stati parti del presente Patto, riconoscendo il diritto
fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame, adotteranno,
individualmente e attraverso la cooperazione internazionale, tutte
le misure ...”.
Nel caso di specie non si discute dell’accesso a prestazioni
assistenziali “ordinarie”, ma dell’accesso ad una misura
emergenziale tesa a fronteggiare le difficoltà dei soggetti più
vulnerabili a soddisfare i propri bisogni primari a causa della
situazione eccezionale determinata dall’emergenza sanitaria in atto.
Si tratta del diritto all’alimentazione che costituisce il
presupposto per poter condurre un’esistenza minimamente dignitosa e
la base dello stesso diritto alla vita e alla salute. Non vi è
dubbio, quindi, che si tratta di quel nucleo insopprimibile di
diritti fondamentali che spettano necessariamente a tutte le persone
in quanto tali.
La finalità del “buono spesa” è proprio quella di far fronte alla
situazione di grave indigenza nella quale si sono trovati i soggetti
più vulnerabili a causa della situazione sanitaria in atto.
Il Giudice capitolino conclude, dunque, affermando che non possono
essere poste condizioni, quale la residenza anagrafica, che di fatto
limitano la platea degli aventi diritto e che, peraltro, non sono
previste dalla norma che lo ha previsto.
Se senz’altro è possibile individuare un necessario legame con il
territorio del comune tenuto all’erogazione, esso può e deve essere
limitato alla abituale dimora dell’avente diritto.
Inoltre, i minori coinvolti nella descritta situazione di disagio
economico e sociale corrono un serio e concreto pericolo legato alla
sfera del loro diritto alla vita, all’integrità personale,
all’alimentazione e al sano e completo sviluppo psicofisico.
Negare il buono spesa al nucleo familiare del ricorrente
equivarrebbe, quindi, a negare un diritto fondamentale anche ai tre
figli minori in ragione della condizione irregolare dei genitori,
attualmente privi del permesso di soggiorno.
Il decreto in rassegna, se da un lato appare di assoluto pregio
nella parte in cui offre una panoramica completa dello stato
dell’arte della giurisprudenza costituzionale sul tema dei rapporti
tra la condizione dello straniero e i diritti fondamentali garantiti
dall’ordinamento, dall’altro, suscita almeno due spunti di
riflessione in chiave critica.
Il primo punto, di carattere processuale, attiene alle condizioni
che legittimano l’azione cautelare.
Orbene, nel caso di specie, risulta dagli atti che l’istanza per
ottenere il beneficio è stata formulata in data 7.4.2020 e che,
successivamente, in data 14.4.2020, è stata inviata una
comunicazione, nella quale erano specificate la peculiare situazione
del ricorrente – ovvero l’assenza di permesso di soggiorno e di
residenza anagrafica – e l’assoluta condizione di disagio economico
del nucleo famigliare.
L’istanza del 7.4.2020, come pure la successiva comunicazione del
14.4.2020, sono rimaste senza risposta da parte dell’Amministrazione
comunale, che, allo stato, non ha ancora assunto in merito alcun
provvedimento.
Deve ritenersi che, in base all’art. 2, comma 2, L. 7 agosto 1990,
n. 241 sul procedimento amministrativo, l’Amministrazione abbia un
termine di 30 giorni entro cui provvedere sull’istanza.
Decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento,
si formerà il silenzio-rifiuto, che assume il significato di mancato
esercizio da parte della P.A. dell’obbligo di provvedere
sull’istanza del privato.
Poiché, dunque, nella fattispecie in esame, la P.A. non ha ancora
adottato un provvedimento espresso né si ritiene si sia verificato
un silenzio significativo (di rigetto), si dovrebbe fortemente
dubitare che si sia verificata una minaccia di un “pregiudizio
imminente e irreparabile” al diritto ad ottenere il “buono spesa”,
tale da giustificare il ricorso alla tutela cautelare.
Ove al quesito si desse risposta affermativa – accedendo, quindi,
alla soluzione adottata dal Giudice capitolino – si potrebbe
giungere a sostenere, allora, che sarebbero legittimati a ricorrere
in sede cautelare tutti coloro i quali hanno presentato istanza al
Comune per l’ottenimento del “buono spesa” e che, tuttavia, non
hanno ancora avuto risposta dalla P.A.
Si tratta, a ben vedere, di una tesi, quest’ultima, che non appare
seriamente proponibile, se solo si considera che, in questi casi, in
mancanza di un provvedimento o un comportamento concretamente lesivo
da parte della P.A., non sarebbe neppure configurabile un interesse
a ricorrere.
La seconda considerazione attiene all’interpretazione delle
disposizioni che regolano l’erogazione dei “buoni spesa”.
Orbene, la fonte normativa può essere rinvenuta nell’Ordinanza del
Capo del Dipartimento della Protezione Civile n. 658/2020 del
29.3.2020.
Detta ordinanza non indica i requisiti per l’accesso alle
provvidenze né tantomeno esclude dal novero dei potenziali
beneficiari gli stranieri sprovvisti di permesso di soggiorno.
L’art. 2 dell’Ordinanza contiene, invece, al comma 1, lett. a) un
riferimento alla “popolazione residente di ciascun comune” come
criterio per la distribuzione delle risorse tra i diversi comuni.
L’art. 2, comma 6 demanda, poi, all’Ufficio dei servizi sociali di
ciascun Comune il compito di individuare “la platea dei beneficiari
ed il relativo contributo tra i nuclei familiari più esposti agli
effetti economici derivanti dall’emergenza epidemiologica da virus
Covid-19 e tra quelli in stato di bisogno, per soddisfare le
necessità più urgenti ed essenziali con priorità per quelli non già
assegnatari di sostegno pubblico”.
D’altro canto, neppure le determinazioni dirigenziali del Comune di
Roma escludono dal novero dei potenziali beneficiari delle misure
gli stranieri privi di permesso di soggiorno, limitandosi ad
individuare tra i soggetti: a) i cittadini residenti nel territorio
comunale; b) le persone non residenti, impossibilitate a raggiungere
il proprio luogo di residenza.
Il concetto di “residenza” che viene più volte richiamato nei
provvedimenti citati, non postula necessariamente la sussistenza di
un regolare permesso di soggiorno.
Ed, infatti, in tal senso depone l’art. 3 D.P.R. 30.5.1989, n. 223
(Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione
residente), secondo cui “Per persone residenti nel comune
s'intendono quelle aventi la propria dimora abituale nel comune”.
Il permesso di soggiorno viene, invece, richiesto dalla normativa di
settore ai fini dell’iscrizione dello straniero nei registri
anagrafici (art. 7, comma 3 D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223).
Non si condivide, pertanto, la ricostruzione interpretativa offerta
dal Giudice romano, secondo cui i cittadini extracomunitari non
attualmente in possesso di permesso di soggiorno non potrebbero
usufruire del “buono spesa”, essendo impossibilitati ad effettuare
l’iscrizione anagrafica.
D’altra parte, è lo stesso Giudice ad affermare, in altra parte
della motivazione, che “se senz’altro è possibile individuare un
necessario legame con il territorio del comune tenuto
all’erogazione, esso può e deve essere limitato alla abituale dimora
dell’avente diritto”.
Esito:
Accoglimento
Riferimenti normativi:
OCDPC n. 658/2020 del 29.3.2020, recante “Ulteriori interventi di
protezione civile in relazione all’emergenza relativa al rischio
sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti
virali trasmissibili”
Determinazione Dirigenziale n. 913 del 31 marzo 2020, poi modificata
e integrata con Determinazione Dirigenziale n. 940 del 2 aprile
2020, del Dipartimento delle Politiche Sociali del Comune di Roma
Art. 27 Convenzione sui Diritti del Fanciullo, stipulata a New York
il 20 novembre 1989
Art. 1 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
Art. 24 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
Art. 1 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
Art. 25 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948
Art. 11 Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali
e culturali e il Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici, con protocollo facoltativo
Tribunale di Roma, decreto 21 aprile 2020, n. 12835.
Il Giudice, con provvedimento inaudita
altera parte, ha ritenuto che gli incontri dei minori con genitori
dimoranti in un Comune diverso da quello di residenza dei minori
stessi, non realizzano affatto le condizioni di sicurezza e prudenza
di cui al D.P.C.M. 9/3/2020 ed all’ancor più restrittivo D.P.C.M.
11/3/2020, come pure al D.P.C.M. 21/3/2020 e, da ultimo, al D.P.C.M.
del 22/3/2020 (ad oggi si è aggiunto il D.P.C.M. 10 aprile 2020).
Conseguentemente, nel bilanciamento degli interessi in gioco, ha
ritenuto che quello alla salute pubblica prevalga comunque, sia sul
diritto del minore alla bigenitorialità, sia sul diritto/dovere di
visita dei genitori separati, soprattutto ove non sia verificabile
se il minore venga esposto a rischio sanitario. Lo stabilisce il
Tribunale di Vasto, decreto 2 aprile 2020.
Analisi del caso
Un genitore, dimorante in un Comune diverso da quello presso il
quale si trova attualmente la figlia minore, ha presentato istanza
per l’emissione di un provvedimento urgente ex art. 337 quinquies
c.c. con cui disporre la collocazione presso di sé della figlia
minore in un periodo ricompreso in quello oggetto di restrizioni a
causa dell’emergenza sanitaria. A tal fine, il ricorrente sottolinea
che tale richiesta sia giustificata dalla necessità di recuperare i
fine settimana in cui si è trovato nella impossibilità di rispettare
la calendarizzazione stabilita. La richiesta di tenere con sé la
minore presso la propria residenza, si renderebbe necessaria anche
perché il ricorrente lamenta serie difficoltà di instaurare
collegamenti telefonici a causa delle resistenze e
dell’ostruzionismo da parte della madre.
La soluzione
Il Tribunale, chiamato a pronunciarsi su tale istanza, ha
innanzitutto ritenuto ammissibile l’adozione di un provvedimento
cautelare inaudita altera parte in tema di revisione delle
disposizioni concernenti l’affidamento dei figli stante l’imminenza
di un pregiudizio irreparabile che non può tollerare i tempi della
giustizia ordinaria. Ha quindi rigettato la richiesta, disponendo
tuttavia che il ricorrente possa avere colloqui telefonici riservati
in videochiamata con la figlia minore, secondo un calendario
puntualmente indicato nella parte dispositiva del decreto,
diffidando la madre della bambina dal tenere comportamenti
ostruzionistici che impediscano l’esercizio del diritto al colloquio
telefonico.
Commento
Il provvedimento che qui si commenta affronta una problematica
attuale, legata alla emergenza sanitaria del COVID-19. In
particolare, affronta la delicata questione del rapporto tra diritto
di visita e diritto alla salute ex art. 32 Cost., sia nell’interesse
generale, sia nell’interesse del minore e dei genitori.
Lo stato emergenziale ha innanzitutto indotto il giudicante a
ritenere ammissibile un provvedimento inaudita altera parte.
Considerando la fattispecie giuridica assistita dal fumus boni juris
e ritenuto sussistere il pericolo di un pregiudizio imminente ed
irreparabile a danno di un minore, infatti, il Tribunale ha
pronunciato un provvedimento senza il preventivo intervento
dell’altro genitore, sul presupposto che, evidentemente, il
principio del contraddittorio sia cedevole rispetto all’urgenza
(esigenza) di un provvedimento finalizzato comunque alla migliore
salvaguardia dell’interesse del minore.
Il Tribunale, pertanto, valutata la gravità e l’urgenza della
vicenda, ha ritenuto opportuno ricomprendere la fattispecie concreta
in quella astratta descritta dall’art. 336 c.c., con ciò
legittimando una tale forma di pronuncia anche in tema di revisione
delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli.
Nel caso di specie, infatti, si discute sostanzialmente su quando e
in che modo il diritto/dovere di visita dei genitori possa essere
esercitato a fronte della necessità di salvaguardare la salute
pubblica e delle limitazioni alla circolazione delle persone,
stabilite per le medesime ragioni sanitarie emergenziali.
Fermo restando che da più parti ci si è appellati al buon senso e,
quindi, alla necessità che i genitori potessero raggiungere un
accordo in merito, onde evitare ulteriori ripercussioni sui propri
figli, laddove ciò non sia stato possibile, vari tribunali sono
stati chiamati ad esprimersi sulla questione, anche sul presupposto,
in parte non condivisibile, che un provvedimento giudiziario di
affidamento dei figli non possa essere modificato da un DPCM che
imponga un divieto di spostamento. Purtroppo occorre sottolineare
che non si registra uniformità di provvedimenti giudiziari su tutto
il territorio nazionale, probabilmente anche in conseguenza del
susseguirsi di DPCM con limitazioni sempre più stringenti che hanno
costretto il giudicante a spostare di volta in volta il baricentro
degli interessi in gioco.
I vari DPCM hanno stabilito, infatti, una limitazione dei movimenti
sempre più rigorosa su tutto il territorio nazionale, onde contenere
il contagio, con conseguente sacrificio di tutti i cittadini.
Non è questa la sede per affrontare la questione della tecnica di
normazione utilizzata dal legislatore in questo periodo
emergenziale, dove si sono succediti in rapida sequenza, atti aventi
forza di legge e provvedimenti legislativi in senso stretto, tali da
creare un elevato stress al sistema delle fonti previsto dalla
nostra Costituzione, nonché alle clausole di salvaguardia che
ciascun articolo della stessa, relativo ai diritti fondamentali,
contiene.
Appare necessario, tuttavia, trarre spunto dal citato provvedimento
per poter affrontare il tema della recessività di taluni aspetti
della genitorialità, rispetto all’emergenza in corso.
Il DPCM in vigore alla data di adozione del provvedimento in esame,
aveva sancito il divieto di trasferirsi da un Comune all’altro (sul
tema era intervenuta anche un’Ordinanza del Ministro della Salute in
pari data), salvo per ragioni comprovate di lavoro, di salute o per
ragioni di urgenza, sollevando così il problema come qualificare il
diritto/dovere di visita dei genitori separati verso i propri figli.
A tale normazione, non propriamente chiara sul piano sistematico,
erano seguiti alcuni chiarimenti attraverso i siti istituzionali
governativi.
In particolare, sono state predisposte le c.d. faq (“gli
spostamenti… sono consentiti, in ogni caso secondo le modalità
previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio”)
che, tuttavia, non sono state sufficienti a sopire il dubbio sul
punto.
Il Tribunale di Vasto ha condivisibilmente optato per un decreto
fortemente limitativo, in conformità a Corte d’Appello di Bari, 26
marzo 2020, dallo stesso richiamato.
Nel bilanciamento dei diversi diritti coinvolti, diritto alla salute
pubblica, diritto alla bigenitorialità del minore e diritto/dovere
di visita del genitore, il decreto in commento ha di fatto sospeso
il diritto/dovere di visita, nei limiti dell’incontro c.d. “in
presenza”, sostanzialmente per tre ragioni, poiché nel caso di
specie: 1. il padre è rientrato nella propria residenza da una città
ad alto tasso di contagio virale; 2. non è dimostrato che il padre
abbia rispettato le prescrizioni imposte dalla normativa vigente,
tra cui l’isolamento domiciliare fiduciario e 3. non sarebbe emerso
se nell’abitazione di destinazione fossero presenti altre persone
oltre all’istante. Non possono non condividersi tali assunti se solo
si pensa che tra i doveri rientranti nella responsabilità
genitoriale viene annoverato anche e soprattutto quello di tutelare
la salute del minore. Purtuttavia, il Tribunale di Vasto ha
salvaguardato comunque il diritto all’incontro, seppure virtuale,
stabilendo colloqui telefonici riservati in videochiamata con la
figlia minore, secondo un calendario puntualmente indicato, e
diffidando la madre dal tenere comportamenti che possano limitare o
impedire tale diritto.
Certamente, il diritto di visita “in presenza” e strictu sensu
inteso è solo sospeso. Ciò non esclude, infatti, che al termine
dell’emergenza sanitaria, venga posta fine alla sospensione e tale
diritto tornerà certamente a riespandersi, con la possibilità di una
sorta di “recupero” del tempo in cui è stato sacrificato seppur nei
limiti delle eventuali nuove disposizioni di contenimento tempo per
tempo vigenti.
In attesa che il legislatore intervenga per chiarire definitivamente
la legittimità degli spostamenti per l’esercizio del diritto di
visita ai figli, si segnala un orientamento difforme a quello in
commento ad opera del Tribunale di Busto Arsizio, decreto 3 aprile
2020, favorevole ad una interpretazione delle disposizioni normative
tale da ricomprendere anche gli obblighi di visita dei figli sanciti
da provvedimenti giurisprudenziali. Tale orientamento si basa anche
sulla considerazione che l’ultimo modello di autocertificazione
elaborato dal Ministero dell’Interno ha inserito tra i motivi di
necessità (o di urgenza?) proprio gli “obblighi di affidamento dei
minori”. Il dubbio su tale impostazione resta, soprattutto ove si
consideri che proprio una certa flessibilità negli spostamenti e
negli incontri tra le persone abbia determinato un aumento
esponenziale della diffusione del contagio. Senza con ciò
dimenticare che, almeno per il momento, l’autocertificazione non
ancora assurge a fonte del diritto.
La natura del provvedimento (decreto), tuttavia, non ha consentito
un approfondimento sul tema della limitazione alla libertà di
movimento ex art. 16 Cost. Probabilmente la giurisprudenza avrà modo
di approfondire tali aspetti al fine di chiarire la portata
effettiva dei limiti e della loro predominanza rispetto ad altri
diritti costituzionalmente garantiti.
Le norme di conversione dei decreti legge adottati dal Governo,
paiono intervenire espressamente su questi temi, ma in ogni caso
sarà necessario ricorrere ad interpretazioni costituzionalmente
orientate al fine di garantire un’uniformità nazionale su temi che
involgono aspetti estremamente delicati della vita di relazione.
Riferimenti normativi:
Art. 16 Costituzione
Art. 32 Costituzione
Art. 336 c.c.
Art. 337 ter c.c.
Art. 337 quinquies c.c.
dpcm 22 marzo 2020
Tribunale di Vasto, decreto 2 aprile 2020
Invero, la bozza di decreto correttivo
al Codice della Crisi, approvato dal Consiglio dei Ministri il 13
febbraio 2020, prevedeva all’art. 41 che gli obblighi di
segnalazione provenienti sia dall’organo di controllo societario o
del revisore e diretto verso l’OCRI (art. 14, comma 2) sia dai
creditori qualificati circa le esposizioni debitorie rilevanti (art.
15) operassero unicamente a partire dal 15 febbraio 2021 per le
imprese che negli ultimi due esercizi non avessero superato alcuno
dei seguenti limiti: attivo patrimoniale o ricavi superiori ai 4
milioni o dipendenti impiegati nell’esercizio in misura maggiore di
20 unità. In seguito, tuttavia, all’epidemia, il d.l. 2 marzo 2020,
n. 9 (“Misure urgenti per famiglie, lavoratori e imprese connesse
all’emergenza epidemiologica da COVID-19”) ha espressamente
stabilito all’art. 11 che “l’obbligo di segnalazione di cui agli
artt. 14, comma 2, e 15 del Codice della Crisi opera a decorrere dal
15 febbraio 2021”.
È evidente che in una situazione in cui l’intero tessuto economico
mondiale risulta colpito da una gravissima forma di crisi, gli
indicatori della crisi non potrebbero svolgere alcun concreto ruolo
selettivo, pregiudicando anzi la propria ratio, vale a dire quella
di intercettare tempestivamente lo stato di crisi, tramite un
sistema di segnalazione tempestiva e intervenire prima che tale
situazione si trasformi in insolvenza irreversibile, al fine di
salvaguardare la continuità aziendale. Nel contesto generale di
grave crisi economica sarebbe infatti inevitabilmente pregiudicata
la possibilità di identificare le imprese capaci di proseguire
l’attività o che necessitano di avviare un piano di
ristrutturazione.
Il rinvio dell’entrata in vigore dell’intero nuovo impianto
normativo si giustifica, inoltre, alla luce della necessità di
rispettare l’equilibrio sistematico del Codice.
Esso, invero, prevede una disciplina più severa in relazione
all’accesso al concordato preventivo, la quale si giustifica proprio
a fronte del sistema delle misure di allerta, la cui sperata
efficienza fa da contrappeso ad una maggiore rigidità in termini di
accesso allo strumento concordatario. Pertanto, sarebbe stata
inevitabilmente pregiudicata l’armonia e la “razionalità” del nuovo
Codice qualora, operandosi un differimento “a geometria variabile”,
alla mancata entrata in vigore delle misure di allerta avesse
corrisposto una – a quel punto – ingiustificata limitazione relativa
al concordato preventivo, con una prospettiva liquidatoria che
porterebbe soltanto ad una “svendita” del patrimonio.
Inoltre, atteso il prevedibile pesante impatto dell’emergenza sulla
solvibilità delle imprese, attesa la possibile crisi degli
investimenti e, in generale, delle risorse necessarie per procedere
a ristrutturazioni delle imprese, il nuovo Codice della crisi
potrebbe risultare scarsamente compatibile con la primaria finalità
della certezza del diritto. La disciplina della legge fallimentare,
sedimentata da una giurisprudenza in vari profili consolidata offre
certamente maggiore stabilità agli operatori rispetto ad uno
strumento che contempla categorie del tutto inedite e che si espone
inevitabilmente a dubbi interpretativi e procedurali.
L’auspicio è che nel settembre 2021 sia superato il “picco” della
crisi economica che, a causa di un ridotto ingresso di liquidità,
inevitabilmente colpirà anche imprese sane, basate su modelli
fondamentalmente solidi, permettendo così, in seguito ai necessari
interventi degli organismi sovranazionali, di avere un contesto
economico “fisiologico” che possa consentire al nuovo Codice della
crisi di operare con concrete possibilità di successo.
Riferimenti normativi:
d.lgs. n. 14/2019
d.l. 2 marzo 2020, n. 9
L’emergenza epidemiologica da Covid-19
ha imposto a tutti di rivisitare il proprio comportamento
quotidiano, soprattutto in relazione agli adempimenti che la legge
dispone di effettuare, a volte entro termini tassativi. Il legale
rappresentante della collettività condominiale è vincolato da
numerosi obblighi legislativamente disposti, la violazione dei quali
può comportare sia la revoca del suo incarico sia una sanzione
amministrativa o addirittura penale a suo esclusivo carico. Non
sempre la normativa dettata al fine di superare positivamente
l’attuale situazione di crisi prende nella dovuta considerazione le
esigenze di coloro che vivono in un condominio.
di Gian Vincenzo Tortorici - Avvocato in Pisa
Gli artt. 2 e 32 Cost. garantiscono i diritti inderogabili della
solidarietà sociale e della salute, intesa questa anche quale
interesse della collettività.
La Corte di Cassazione con la sentenza 13 febbraio 2020, n. 3691 ha
da ultimo precisato che la garanzia della dignità personale deve
ricomprendere anche la salute psichica della persona oltre a quella
fisica. Questo concetto si interseca inequivocabilmente con quello
della privacy; il Comitato europeo per la protezione dei dati con
nota del 19 marzo 2020 ha precisato che le norme del RGPD del 2016
non ostacolano l’adozione di misure per il contrasto della pandemia.
Del resto la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, seppur con
riferimento all’art. 7 della Direttiva 95/46, sostanzialmente non
modificato dalla successiva disposizione citata, ha autorizzato la
comunicazione dei dati personali se si persegue la necessità di un
legittimo interesse dei terzi e sempre che la libertà del singolo
alla protezione dei suoi dati non prevalga sul legittimo interesse
perseguito dedotto (Corte Giustizia UE 11 dicembre 2019 n. 708 e
Corte Giustizia UE 16 gennaio 2019, n. 496).
Inoltre la nota del Comitato precisa che il datore di lavoro può
legittimamente trattare i dati del dipendente per garantire la
sicurezza sul luogo di lavoro e/o il perseguimento dell’interesse
pubblico inerente al controllo della malattia e ad altra minaccia di
natura sanitaria, notiziando preventivamente il lavoratore
dell’iniziativa che intende adottare.
D’altronde la lettera c) del secondo comma dell’art. 9 del precitato
Regolamento consente il trattamento dei dati personali quando è
necessario tutelare un interesse vitale dell’interessato o di altra
persona fisica, qualora l’interessato versi nell’incapacità fisica
di prestare il proprio consenso.
Ne deriva che il trattamento dei dati deve essere conforme ai
principi di trasparenza, proporzionalità e coerenza [si veda
l’intervista al Garante dr. Soro del 19 marzo 2020], bilanciando la
limitazione alla privacy del soggetto “coinvolto” con l’interesse
alla salute della collettività garantito, come dedotto, dalla
Costituzione.
Considero che evitare il contagio e, quindi, la diffusione del
virus, sia un interesse legittimo della popolazione italiana in
qualsiasi sua manifestazione; la tutela della salute deve essere
garantita in ogni comunità, anche piccola, dalla famiglia, e,
infatti, vengono posti in quarantena i familiari delle persone
colpite dal virus, al condominio. Non solo, se la tutela alla salute
si estende ai turbamenti psichici delle persone, anche la paura del
contagio può incidere sulla salute di costoro.
Recependo il dettato giurisprudenziale in tema di danni da cose in
custodia e di incidenti sul lavoro, reputo che si possa prevedere
una responsabilità, a carico di chi ne ha il potere, per non aver
attuato tutte le misure di cautela, pur non espressamente imposte
dalla legge, richieste dall’esistenza di condizioni pericolose per
l’ambiente e per chi lo frequenta, soprattutto se il pericolo sia
superabile con l’adozione di comportamenti tali da evitare l’evento
dannoso in ottemperanza al principio di solidarietà individuato
dall’art. 2 Cost..
Ritengo, conseguentemente, che l’amministratore:
1) nella sua qualità di datore di lavoro, debba segnalare ai
condomini e ai titolari di diritti personali di godimento, iscritti
nel Registro dell’anagrafe condominiale, che il prestatore di lavoro
del Condominio è affetto da Covid-19, preavvertendolo, purché
ufficialmente accertato, preavvertendolo, affinché possano adottare
tutte le cautele necessarie ad evitare il contagio e,
contemporaneamente, debba provvedere a sanificare tutte le parti
comuni dell’edificio.
2) possa segnalare ai residenti nello stabile da una parte che si
è/sono verificati dei casi di persone accertate positive al virus
Covid-19, senza indicarne i nominativi, sempre che i primi non ne
siano già a conoscenza per altra via, e che immediatamente provvede
alla sanificazione di tutte le cose condominiali.
Premesso quanto sopra dedotto inerente alla tematica della privacy,
numerose altre sono le questioni che riguardano l’attività
dell’amministratore di condominio, che ai sensi della L. 14 gennaio
2013, n. 4 è un professionista intellettuale; peraltro è necessario
che possegga tutti i requisiti di moralità e di professionalità
prescritti dall’art. 71 bis disp. att. cod. civ. e in particolare
l’attestato di superamento dell’esame per l’aggiornamento annuale
disposto dal D. M. 13 agosto 2014, n. 140, che, da ultimo, è
riferito all’annualità 2018/2019.
In questa fattispecie l’amministratore di condominio può svolgere la
propria attività anche recandosi al proprio studio, seppur ubicato
in altro Comune, soltanto per le attività che non riesca a svolgere
correttamente nella propria abitazione, per esempio contattare un
manutentore, come precisato nella Faq del Governo del 15 marzo 2020.
Se sia indispensabile, l’amministratore può chiedere che alcuni suoi
collaboratori si rechino in ufficio, purché tra le loro postazioni
di lavoro sussista almeno la distanza di un metro.
Ma l’amministratore potrebbe avere la necessità di recarsi presso
gli edifici amministrati, per esempio per verificare un guasto ad un
impianto; in questo caso deve indicare nell’autodichiarazione, che
può essere richiesta dalle Forze dell’Ordine durante il suo
spostamento, l’indirizzo dei condominii interessati al suo
sopralluogo. Del resto l’amministratore effettua un utile servizio a
tutela dei suoi amministrati, che sono consumatori e cittadini dello
Stato.
Tra gli obblighi dell’amministratore vi sono quelli di predisporre i
rendiconti consuntivo e preventivo e di farli approvare
dall’assemblea, nonché di mantenere lo stabile, latu sensu inteso,
in buone condizioni di conservazione.
Per quanto concerne la redazione dei rendiconti, l’amministratore
può provvedervi e inviarli, riservandosi di convocare l’assemblea
appena sarà legalmente possibile; può anche richiedere un acconto
per fare fronte alle spese necessarie, per esempio saldare il premio
della polizza di assicurazione o pagare lo stipendio del portiere.
Le assemblee non possono essere convocate per evitare gli
assembramenti di persone e, anche, perché potrebbe esservi un
impedito alla partecipazione di un condomino, per esempio perché
residente in un Comune differente da quello in cui si dovrebbe
tenere l’adunanza o perché posto in quarantena presso la propria
abitazione; si potrebbe ipotizzare l’adozione degli strumenti
tecnologici che consentano di programmare assemblee svolte in
remoto, ma sarebbe obbligatorio, per evitare successive
impugnazioni, che tutti i condomini, neanche uno escluso, abbiano la
possibilità di collegarsi in videoconferenza e che il presidente
dell’assemblea abbia la potenzialità di accertare costantemente che
tutti siano sempre collegati e che, quindi, nessuno si allontani dal
proprio computer, condizioni queste che è molto improbabile si
possano verificare.
D’altronde la stessa Faq sopra citata esclude la possibilità che
l’amministratore convochi le assemblee.
A proposito di assembramenti, l’amministratore può consigliare ai
condomini un uso limitato e alternato dell’ascensore.
Per quanto inerisce alle manutenzioni dell’immobile, qualora queste
siano urgenti e indifferibili, può disporne l’esecuzione ai sensi
dell’art. 1135, II comma, cod. civ.; in caso contrario deve
rimettere la decisione alla prima assemblea utile, come ut supra
osservato.
Considerata la pericolosità del virus del quale si tratta, è
opportuno trascrivere l’articolo uno del D. M. 7 luglio 1997, n.
274, per quanto qui occorra:
a) sono attività di pulizia quelle che riguardano il complesso di
procedimenti e operazioni atti a rimuovere polveri, materiale non
desiderato o sporcizia da superfici, oggetti, ambienti confinati ed
aree di pertinenza;
b) sono attività di disinfezione quelle che riguardano il complesso
dei procedimenti e operazioni atti a rendere sani determinati
ambienti confinati e aree di pertinenza mediante la distruzione o
inattivazione di microrganismi patogeni;
c) sono attività di disinfestazione quelle che riguardano il
complesso di procedimenti e operazioni atti a distruggere piccoli
animali, in particolare artropodi, sia perché parassiti, vettori o
riserve di agenti infettivi sia perché molesti e specie vegetali non
desiderate;
Omissis
e) sono attività di sanificazione quelle che riguardano il complesso
di procedimenti e operazioni atti a rendere sani determinati
ambienti mediante l'attività di pulizia e/o di disinfezione e/o di
disinfestazione ovvero mediante il controllo e il miglioramento
delle condizioni del microclima per quanto riguarda la temperatura,
l'umidità e la ventilazione ovvero per quanto riguarda
l'illuminazione e il rumore.
La sanificazione è, conseguentemente, una attività da effettuare per
ultima allo scopo di rendere un ambiente ancora più sicuro per la
presenza umana.
Il Ministero della Salute ha recentemente precisato che i virus
possono persistere sulle superfici inanimate allorché si verificano
le condizioni di cui alla precitata lettera e), ma possono essere
efficacemente inattivati con adeguate procedure di sanificazione; ha
consigliato di prestare particolare attenzione alle superfici
toccate di frequente dalle persone, quali muri, porte e finestre e
di controllare che tutte le relative operazioni siano condotte da
addetti che indossino adeguati dispositivi di protezione Individuali
(DPI) e utilizzino prodotti certificati.
L’amministratore deve preoccuparsi, pertanto, di far effettuare
scrupolosamente la pulizia delle parti comuni dell’edificio e degli
impianti in esso installati, specificatamente l’ascensore, e
ricorrere alla sanificazione, nel caso la ritenga opportuna a
maggior garanzia degli abitanti, con le ditte specializzate che
posseggano i requisiti prescritti dall’articolo due del
summenzionato D. M. 274/1997.
Le imprese e i loro dipendenti sono terzi rispetto ai condomini e,
coerentemente a quanto prescritto dalla normativa sulla privacy,
l’amministratore non può riferire loro se all’interno dello stabile
si siano o non si siano verificati contagi, senza l’autorizzazione
scritta di tutti gli abitanti che sono i diretti interessati di tale
informazione.
Riferimenti normativi:
L. 14 gennaio 2013, n. 4
Art. 71 bis disp. att. cod. civ.
D. M. 13 agosto 2014, n. 140
Il diritto - dovere dei genitori e dei
figli minori di incontrarsi, nell’attuale momento emergenziale, è
recessivo rispetto alle limitazioni alla circolazione delle persone,
legalmente stabilite per ragioni sanitarie, a mente dell’art. 16
della Costituzione, ed al diritto alla salute, sancito dall’art. 32
Cost. Quanto stabilito dal Tribunale di Bari, decreto 26 marzo 2020.
di Antonio Scalera - Consigliere Corte d’Appello
PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI:
Conformi:
Non si rilevano precedenti
Difformi:
Trib. Milano, 11.3.2020
Con il provvedimento in rassegna, emesso inaudita altera parte, il
Tribunale di Bari, in accoglimento di apposita istanza, ha sospeso
gli incontri tra il padre ed il figlio minore, collocato presso la
madre e residente in un comune diverso da quello di residenza
paterna.
A fondamento della sospensione il Tribunale ha osservato che le
misure restrittive, di recente adottate dal Governo per contrastare
l’epidemia da Coronavirus, si prefiggono di limitare, in modo
“rigoroso” e “universale”, i movimenti sul territorio, con
conseguente sacrificio di tutti i cittadini ed anche dei minori. In
particolare, ad avviso del Tribunale, non è possibile verificare se
il minore, durante l’incontro con l’altro genitore, sia stato
esposto a rischio sanitario; ciò costituisce, quindi, un pericolo
per coloro che il minore stesso ritroverà al rientro presso
l’abitazione del genitore collocatario. Inoltre, il Tribunale
statuisce che, nell’attuale momento emergenziale, il diritto -
dovere dei genitori e dei figli minori di incontrarsi è recessivo
rispetto alle limitazioni alla circolazione delle persone, imposte
per ragioni sanitarie. Sulla base di tali argomentazioni il
Tribunale ritiene necessario interrompere gli incontri padre-figlio
e dispone che il diritto di visita sia esercitato soltanto con
modalità a distanza (videochiamata Skype) secondo il calendario già
stabilito.
Il breve provvedimento in rassegna induce ad alcune riflessioni.
Anzitutto, la conclusione assunta dal Tribunale appare, in prima
battuta, rispettosa del dettato dell’art. 1, lett. b) del D.P.C.M.
22 Marzo 2020, secondo cui “è fatto divieto a tutte le persone
fisiche di trasferirsi o spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici
o privati, in un comune diverso rispetto a quello in cui attualmente
si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di
assoluta urgenza ovvero per motivi di salute”. Tale disposizione
ricalca pedissequamente quella adottata con ordinanza emessa in pari
data dal Ministro della Salute, di concerto con il Ministro
dell’Interno.
E’, peraltro, opportuno precisare che la disposizione in esame, a
mente dell’art. 2, comma 1 del citato D.P.C.M., ha efficacia fino al
3 Aprile 2020. Ora, l’esercizio del diritto di visita – salvo che
non ricorrano motivi di “assoluta urgenza”, tali da giustificare lo
spostamento del padre verso il figlio (o viceversa) in un comune
diverso da quello in cui attualmente si trovano – non pare potersi
ricondurre ad alcuna delle ipotesi eccezionali sopra indicate. Sotto
questo profilo, dunque, la decisione merita di essere condivisa,
giacché, nella fattispecie in esame, l’esercizio di visita implica
lo spostamento di persone da un comune all’altro, spostamento che
non è consentito dalla normativa citata sino al 3 Aprile 2020.
Tuttavia, non va trascurato che, proprio sul sito istituzionale
governo.it (aggiornato al 28 Marzo 2020), nella sezione dedicata
alle “domande frequenti sulle misure adottate dal Governo”, si legge
che “gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso
l’altro genitore o comunque presso l’affidatario, oppure per
condurli presso di sé, sono consentiti, in ogni caso secondo le
modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o
divorzio”.
Tale indicazione – ove si voglia dare coerenza interpretativa al
variegato quadro normativo emergenziale – deve intendersi riferita
alle visite che richiedono spostamenti all’interno del medesimo
comune, non essendo, invece, consentiti, salvo ipotesi eccezionali,
spostamenti da un comune all’altro. A conclusioni difformi è,
invece, pervenuto il Tribunale di Milano, con decreto dell’11 Marzo
2020, in una fattispecie in parte sovrapponibile a quella in esame.
La pronuncia del Giudice milanese era stata sollecitata dalla
richiesta del difensore della madre di rientro dei minori presso il
domicilio di Milano. In quel caso il Tribunale ambrosiano ha
ritenuto che le previsioni di cui all'epoca vigente art. 1, comma 1,
lett. a), del D.P.C.M. 8 Marzo 2020 non fossero preclusive
dell'attuazione delle disposizioni di affido e collocamento dei
minori.
La disposizione richiamata dal Giudice milanese prevedeva che “allo
scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19
nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza,
Reggio nell'Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti,
Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia,
sono adottate le seguenti misure: a evitare ogni spostamento delle
persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al
presente articolo, nonche' all'interno dei medesimi territori, salvo
che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o
situazioni di necessita' ovvero spostamenti per motivi di salute. E'
consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o
residenza”. Tale disposizione, dunque, espressamente consentiva –
come, del resto, è stato puntualmente osservato dal Giudice milanese
- il rientro presso il domicilio di coloro che, al momento
dell’entrata in vigore del precetto, si trovavano altrove.
La disposizione è stata, successivamente, modificata dal D.P.C.M.
del 22 Marzo (applicato dal Tribunale di Bari), che ha soppresso
l’inciso “E’ consentito il rientro presso il proprio domicilio,
abitazione o residenza”. Dunque, l’apparente difformità delle
conclusioni assunte nei due provvedimenti giudiziali si spiega in
ragione delle diverse disposizioni normative applicate, le quali si
sono succedute rapidamente nel tempo, in parallelo all’aggravarsi
del fenomeno epidemico.
Riferimenti normativi:
Cost., art. 16
Cost., art. 32
Cod. Civ., art. 337 ter
D.P.C.M. 22 Marzo 2020
Tribunale di Bari, decreto 26 marzo 2020
Non interrompe il nesso causale il
tardivo e maldestro soccorso prestato dal personale sanitario allorché
l’evento morte configuri il sostanziarsi del medesimo rischio
cagionato dalla condotta colposa dell’agente rispetto alla quale la
cattiva risposta medica può al più costituire concausa priva di
autonomia (Cass. pen. sez. IV, sentenza n. 11536/2020).
L’assecondare le pericolose intemperanze di un paziente ospedaliero,
aiutandolo ad eludere le prescrizioni impostegli dal personale
sanitario, costituisce ragione di responsabilità laddove si verifichi
l’evento che le restrizioni stesse sono volte ad escludere.
Così ha deciso la Quarta Sezione Penale della Suprema Corte di
Cassazione, chiamata a giudicare la responsabilità di una donna che,
per consentire all’anziano marito paziente di ospedale di raggiungere
i bagni del nosocomio, aveva rimosso le sbarre di protezione del letto
ed aveva così consentito che il coniuge scendesse dal letto stesso,
cadesse rovinosamente a terra e riportasse lesioni di tale gravità da
successivamente cagionarne la morte.
In particolare, era risultato dal processo di merito che lo stesso
allestimento delle paratie era stato motivato dal concreto pericolo
che il paziente provasse a mettersi in piedi senza esserne in grado e
che perciò incorresse nel susseguente pericolo di cadere in terra, poi
concretamente verificatosi per via della collaborazione della moglie.
Di contro, la difesa aveva dedotto – in sede di ricorso per cassazione
– che nessuna responsabilità si sarebbe dovuta attribuire
all’imputata, posto che ella non avrebbe fatto altro che intervenire
in una situazione di dilatata assenza del personale sanitario, senza
neppure aver compreso il divieto di alzarsi posto a carico di suo
marito.
Ciò che infatti era evidenziato dalla donna a ragione delle proprie
doglianze era proprio il comportamento complessivo del personale
ospedaliero sia nel periodo precedente, sia in epoca successiva
rispetto alla ferale caduta anzi riferita: a detta della stessa,
infatti, era stata proprio la costante assenza del personale sanitario
a costringerla ad accudire autonomamente il proprio coniuge, assumendo
l’iniziativa di consentirgli di andare in bagno senza essere resa
edotta delle controindicazioni a cui con ciò poteva andare incontro.
Ancor più grave, ad avviso della difesa, era stato il fatto che
l’intervento medico fosse avvenuto ben nove ore dopo la caduta, a
seguito di un iter costellato di inadempimenti ed omissioni del
personale ospedaliero.
Tali fattori di altrui responsabilità, ad avviso della ricorrente, non
potevano che indurre ad escludere la responsabilità dell’imputata sia
sotto il profilo dell’elemento oggettivo, sia sotto l’aspetto
dell’elemento psicologico del reato.
Non incorrerebbe in colpa l’agente, in quanto non è in capo ad ella –
bensì al personale sanitario – che grava l’obbligo di predisporre ogni
misura volta ad impedire il determinarsi di fattori di rischio tali da
porre in pericolo la salute e la stessa vita del paziente.
E sarebbe con ciò il personale sanitario a dover rispondere del
rispetto delle prescrizioni laddove non abbia svolto la dovuta
attività di verifica mediante la propria vigile presenza nella corsia
né abbia quanto meno fornito al parente del paziente in cura le minime
istruzioni su come gestire la propria attività di assistenza al
malato.
Ma non solo. Deduzione della ricorrente era altresì che il decesso del
paziente non si sarebbe prodotto qualora ad egli fosse stata recata
tempestiva e diligente assistenza a seguito della caduta: i ritardi e
le omissioni occorse, al contrario, avrebbero consentito il degenerare
della situazione tanto da intervenire a spezzare il nesso eziologico
tra le condotte dell’imputata e l’evento morte, costituendo in
definitive cause autonome e da sole sufficienti a determinare il
decesso del paziente.
I Giudici di legittimità hanno respinto i predetti argomenti
dichiarandoli infondati: risultava infatti dagli atti del merito che
fosse certo che i sanitari avessero detto all’imputata che il marito
non avrebbe per alcuna ragione dovuto alzarsi dal letto.
Ella, piuttosto che assumere iniziative in autonomia, avrebbe dovuto
segnalare agli operatori l’esigenza del marito in modo tale che
fossero questi ultimi a valutare se e come porre in essere le misure
volte a consentire al paziente di espletare le proprie necessità
fisiologiche.
In altri termini, il rimuovere di autonoma iniziativa una barriera
posta a tutela del paziente ha costituito la violazione di
un’elementare regola di prudenza, indipendentemente dal fatto che il
personale sanitario avesse o meno svolto con la dovuta cura le proprie
funzioni di vigilanza.
Per quanto attiene la sussistenza del nesso eziologico tra l’azione
dell’imputata e il decesso di suo marito, la Corte di Cassazione ha
ribadito il radicato orientamento per cui, anche laddove nuova causa
sopravvenga, affinché essa possa dirsi idonea ad interrompere il nesso
causale è necessario che inneschi un rischio nuovo o comunque
radicalmente esorbitante rispetto a quello determinato dall’agente.
Posto che dalla caduta del marito era scaturita la frattura del femore
da cui era successivamente conseguita la morte della vittima, le
eventuali cattive risposte mediche al problema non hanno determinato
alcun pericolo autonomo o esorbitante rispetto al rischio del decesso
strettamente collegato con la condotta della moglie e perciò
un’eventuale responsabilità del personale sanitario potrebbe al più
essere introdotta in termini di concorso.
In definitiva, la Suprema Corte di Cassazione ha per questi motivi
confermato l’impugnata sentenza di merito, così definitivamente
dichiarando la penale responsabilità dell’imputata in ragione del
commesso omicidio colposo.
Tuttavia, i Giudici di legittimità hanno accolto l’ultima non certo
banale doglianza della ricorrente cui la Corte d’Appello aveva negato
il beneficio della sospensione condizionale della pena nonostante le
avesse comminato la sanzione della reclusione per un periodo inferiore
ai due anni e nonostante la propria incensuratezza.
Ciò sulla scorta di un giudizio prognostico espresso nei seguenti
termini ipotetici: “non è lecito né possibile escludere che in futuro
non commetta altri reati”.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha ritenuto ribadire che è precipuo
onere del giudicante specificare quali concreti elementi fondino una
prognosi – positiva o negativa – circa la successiva commissione di
altri reati da parte del condannato e per questo ha dichiarato
l’annullamento dell’impugnata sentenza limitatamente alla mancata
concessione del beneficio in parola, rinviando per il punto alla Corte
d’Appello competente.
Cassazione penale, sezione IV, sentenza 7 aprile 2020, n. 11536
IIl reato di coltivazione di
stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di
principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la
conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine,
anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a
produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in
quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma
penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in
forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo
scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto
ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento
nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via
esclusiva all'uso personale del coltivatore (Cass. pen., SS.UU.,
sentenza 16 aprile 2020 n. 12348).
La soluzione
Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile
indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile
nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al
tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di
coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza
stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non
riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le
attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma
domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso
numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile,
la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del
mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva
all’uso personale del coltivatore.
I precedenti difformi
Cass. pen. Sez. Unite, sentenza 10/07/2008, n. 28605 e Cass. pen. Sez.
Unite, sentenza 10/07/2008, n. 28606
Ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante
dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice
verificare in concreto l'offensività della condotta ovvero l'idoneità
della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.
(Conforme, Sez. U. 24 aprile 2008, Valletta, non massimata). (Vedi
Corte cost. n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996) – RV 239921 – 01
Costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non
autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili
sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione
del prodotto ad uso personale. (Conforme, Sez. U. 24 aprile 2008,
Valletta, non massimata). (Vedi Corte cost. n. 360 del 1995 e n. 296
del 1996). – RV 239920 - 01
La questione
Le Sezioni unite, superando la precedente giurisprudenza “di rigore”
[sintetizzabile nel principio che la coltivazione è sempre penalmente
rilevante, quale che ne sia la dimensione e prescindendo dalla
destinazione personale del ricavato], hanno affermato che non commette
il reato di cui all’articolo 73 del dpr n. 309 del 1990 chi coltiva
per uso domestico piante da stupefacente in numero modesto, tale da
accreditare una destinazione dello scarsissimo principio attivo
ricavabile ad un uso esclusivamente personale del coltivatore.
In effetti, finora le stesse Sezioni unite si erano espresse in modo
diametralmente diverso.
E’ nota, infatti la diversa lettura interpretativa fornita in
precedenza dalle Sezioni unite, nelle sentenze 24 aprile 2008, Di
Salvia e 24 aprile 2008, Valletta, secondo cui costituiva condotta
penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di
coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze
stupefacenti, anche quando fosse realizzata per la destinazione del
prodotto ad uso personale, essendo irrilevante ai fini della
sussistenza del reato la distinzione tra coltivazione tecnico-agraria
e coltivazione domestica.
Secondo questa impostazione, lo spazio per una pronuncia liberatoria
poteva semmai aversi solo in presenza di condotte di coltivazione che
risultassero concretamente “inoffensive”, spettando al giudice di
merito verificare se la condotta di coltivazione accertata fosse in
ipotesi assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico
protetto e dovendosi in proposito considerarla “inoffensiva” [solo] se
la sostanza ricavabile dalla coltivazione non risultasse idonea a
produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.
Tale impostazione di rigore era seguito dalla giurisprudenza
assolutamente prevalente e veniva spiegata con il rilievo che l’
attività della coltivazione in sé, in difetto delle prescritte
autorizzazioni, è da ritenere sempre potenzialmente diffusiva della
droga, tanto che l’offensività della condotta non sarebbe neppure
esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione delle
piante, neppure quando risulti l’assenza di principio attivo
ricavabile nell’immediatezza, ove gli arbusti, conformi al tipo
botanico prescritto, siano prevedibilmente in grado di rendere,
all’esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di
prodotto dotato di effetti droganti.
Gli argomenti delle Sezioni Unite
Ora finalmente le Sezioni unite rinnegano la precedente impostazione
interpretativa e sposano tout court la tesi dell’irrilevanza penale
della coltivazione “domestica”, che riconduce ad equità il sistema.
In proposito, la Corte non rinnega il principio ribadito anche dalla
Corte costituzionale [di recente, con la sentenza n. 109 del 2016]
secondo cui non è irragionevole la scelta del legislatore di punire
penalmente sempre la condotta di coltivazione, perché è condotta di
per sé pericolosa in quanto idonea ad arricchire la provvista
esistente di materia prima e quindi a creare potenzialmente più
occasioni di spaccio.
Ma un conto è l’applicabilità di tale principio alla coltivazione vera
e propria [c.d. tecnica- agraria; disciplinata dall’articolo 27 e seg.
del dpr n. 309 del 1990], qualificata dall’apprezzabilità delle
dimensioni e della finalità commerciale, altra questione è quella
dell’ estensione della medesima disciplina alla mera coltivazione
domestica, di minime dimensioni, qualificata non solo, appunto, dalla
modestia delle dimensioni, ma anche dal suo svolgimento in forma
domestica e non in forma industriale, dalla rudimentalità delle
tecniche utilizzate, dallo scarso numero di piante, dalla mancanza di
indici di un inserimento dell’attività nell’ambito del mercato degli
stupefacenti, dall’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso
personale esclusivo del coltivatore.
Infatti, le cautele che il legislatore ha inteso avere per la
coltivazione vera e propria [c.d. tecnico-agraria] non sono
pertinentemente invocabili rispetto alla attività di coltivazione
domestica di poche piante per l’uso personale del coltivatore: il
quantum del ricavato, reale o potenziale, è talmente irrilevante da
non potersi considerare significativo per influenzare il mercato,
mentre, con valutazione assorbente, questa influenza sul mercato e il
rischio di spaccio sono intrinsecamente escluse dalla finalità della
condotta: quella destinazione all’uso personale che esclude
qualsivoglia offensività della condotta, pur astrattamente conforme al
tipo legale [la coltivazione].
A conferma dell’irrilevanza penale della coltivazione domestica, le
Sezioni unite ricostruiscono innovativamente il bene giuridico
tutelato dalla normativa degli stupefacenti, identificato nella sola
salute individuale o collettiva, così superando quanto in precedenza
sostenuto [cfr. la citata sentenza delle Sezioni unite Di Salvia e, in
precedenza, la sentenza delle stesse Sezioni unite, 24 giugno 1998,
Kremi] circa la ravvisabilità dell’oggettività giuridica del reato
[anche] nella sicurezza, nell’ordine pubblico, nella salvaguardia
delle giovani generazioni, nell’impedimento dell’incremento del
mercato degli stupefacenti. Proprio la valorizzazione della [sola]
salute individuale e collettività come fondamento della sanzionabilità
della condotta spiega il giudizio di irrilevanza della coltivazione
domestica, condotta ex se concettualmente inidonea ad attentare a tale
bene.
Anzi, precisano le Sezioni unite, la coltivazione domestica non solo è
penalmente irrilevante, ma non può essere ex se neppure sanzionata
amministrativamente ex articolo 75 del dpr n. 309 del 1990 per difetto
di tipicità, giacché tale fattispecie sanzionatoria amministrativa è
espressamente limitata a condotte diverse [importazione, esportazione,
acquisto, ricezione, detenzione] qualificate dall’uso personale,
mentre non è affatto considerata la condotta di coltivazione, anche
laddove fosse finalizzata all’uso personale.
Piuttosto, l’articolo 75 cit. potrà essere applicato nel caso in cui
il coltivatore, a processo di maturazione completato e avvenuta la
raccolta, venga trovato in possesso del ricavato della coltivazione,
se e in quanto dotato di principio attivo drogante: in tal caso, sarà
sanzionata la detenzione del prodotto della coltivazione, ma non la
coltivazione in sé.
Una conclusione convincente
Il cambiamento di impostazione è radicale e assolutamente convincente.
Uno spunto a favore di questa lettura estensiva, a ben vedere, già lo
si poteva trarre proprio dalla sentenza n. 109 del 2016 della Corte
costituzionale, laddove i giudici delle leggi, esaminando il tema
dell’accertamento dell’offensività in concreto della condotta di
coltivazione, avevano affermato che alla declaratoria di non
punibilità della coltivazione si poteva pervenire sia facendo
riferimento ai principi del reato impossibile [quindi, valorizzando la
non offensività della condotta], sia attraverso il riconoscimento del
difetto di tipicità del comportamento incriminato.
Ne conseguiva – proprio dai principi espressi dal giudice delle leggi-
che il fatto poteva e doveva ritenersi “atipico”, laddove
caratterizzato dall’insussistenza di un principio attivo rilevabile,
risultando, quindi, non conforme al “tipo” della coltivazione
penalmente rilevante. E poteva e doveva essere ritenuto “inoffensivo”
quando, pur in presenza di principio attivo, si fosse trattato di un
quantitativo così minimale da essere inidoneo in concreto ad offendere
i beni giuridici tutelati dalla sanzione penale così come sopra
ricostruiti.
Ebbene, anche a voler individuare tra i beni tutelati dalla disciplina
penale sanzionatoria degli stupefacenti, non solo la salute
individuale e collettiva [come qui hanno sostenuto le Sezioni unite],
ma anche l’esigenza di evitare la diffusione della droga sul mercato e
la sicurezza/ordine pubblico, risulta evidente che non possa
pervenirsi a sanzionare condotte minimali quali quelle rientranti
nella nozione di coltivazione domestica.
Infatti, non sarebbe possibile sostenere la verificazione di una
lesione del “bene della salute”, a fronte di una sostanza che, proprio
per la modestia quantitativa del principio attivo, risultasse
pressoché inidonea a determinare gli effetti lesivi che le sono
normalmente propri. Anche perché il “bene della salute” tutelato
nell’ambito del sistema repressivo penale degli stupefacenti deve
essere pur sempre apprezzato nella prospettiva del terzo destinatario
della droga [qui, da escludere, proprio perché si tratterebbe pur
sempre di coltivazione per uso personale].
Neppure sarebbe possibile sostenere alcun concreto effetto negativo
sul “mercato illecito della droga”, in presenza di quantitativi
minimali e tali da escludere una effettiva “diffusione” della
sostanza. Del resto, la pretesa maggiore pericolosità della
coltivazione è pur sempre correlata al fatto che trattasi di attività
che è destinata ad accrescere “indiscriminatamente” i quantitativi
coltivabili e quindi ha una “maggiore potenzialità diffusiva” delle
sostanze stupefacenti estraibili [come ribadito proprio dalla sentenza
della Corte costituzionale n. 109 del 2016; ma già in precedenza lo si
era affermato nella sentenza della stessa Corte n. 360 del 1995]:
situazioni empiricamente inconcepibili in presenza di attività
modestissime e rudimentali di coltivazione, laddove qualsivoglia
prognosi di diffusività indiscriminata del ricavato è concettualmente
impraticabile.
Infine, neppure sarebbe possibile invocare alcuna lesione anche solo
potenziale alle esigenze della “sicurezza” e dell’“ordine pubblico”:
esigenze non utilmente richiamabili in presenza di condotte illecite
aventi ad oggetto sostanze stupefacenti in quantitativi minimali,
privi di alcun effetto realmente efficiente rispetto a beni di tale
rilievo collettivo.
L’accertamento del reato e “maturazione” delle piante
La decisione delle Sezioni unite fa chiarezza anche su un’altra
questione, quella del trattamento da riservare alle ipotesi di
coltivazione [non domestica] accertate “anticipatamente”, cioè quando
ancora le piante non siano giunte a maturazione.
Anche sotto questo profilo le conclusioni della Cassazione paiono
pienamente convincenti perché in linea con la rilevata pericolosità
della condotta di coltivazione [non domestica] propugnata dal
legislatore.
Non è allora dubitabile che la coltivazione di stupefacenti è
configurabile come reato indipendentemente dalla quantità di principio
attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità
della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per
le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre
sostanza stupefacente. Nulla rileva quindi, per escludere il reato, il
fatto che l’intervento degli organi di polizia si sia realizzato
quando ancora le piante non sono arrivate a maturazione e non
presentano ancora un principio attivo apprezzabile.
Questa conclusione non è infatti incompatibile con la necessità di
verificare in concreto l’offensività della condotta [in questo senso
sono le indicazioni – tra l’altro- delle menzionate pronunce della
Corte costituzionale: cfr., in particolare, la sentenza n. 109 del
2016 della Corte costituzionale].
L’inoffensività della condotta [tale in ipotesi da far scattare
l’ipotesi del reato impossibile] non può che essere assoluta e come
tale va apprezzata e considerata, non potendo dipendere da circostanze
occasionali e contingenti, quali il grado di maturazione delle piante
al momento dell’intervento delle forze dell’ordine.
In altri termini, la disciplina del reato impossibile non potrebbe
essere richiamata rispetto alla condotta di coltivazione che non sia
risultata in grado di produrre principio attivo stupefacente solo
occasionalmente, in ragione del tempestivo intervento effettuato dalle
forze di polizia prima della maturazione delle piante: in tale
evenienza, infatti, l'inidoneità della condotta non potrebbe
considerarsi assoluta, essendo conseguenza di un evento assolutamente
accidentale.
Da quanto esposto consegue che, in presenza di una condotta di
coltivazione, il giudice ha però l'obbligo di procedere sempre a
verificare, attraverso apposita consulenza tossicologica sulla natura
e sulla qualità delle piante, se queste siano in grado o no di
consentire di ricavare sostanza stupefacente dotata di un principio
attivo idoneo a provocare l'effetto drogante, non potendosi
"accontentare" della fatto che la pianta sia conforme al tipo botanico
previsto e della definizione della condotta incriminata come
integrante un reato di pericolo presunto, dovendo verificare – a
prescindere dal grado di maturazione- [quanto meno] l’attitudine della
pianta a produrre sostanza stupefacente.
A tal fine, quindi, per fondare la punibilità, sarà sufficiente
l’accertamento che la coltivazione [a prescindere dallo stato
dell’accertamento di polizia] si sia svolta in condizioni tali da
potersene prefigurare il positivo sviluppo.
Mentre, puntualizza esattamente la Corte in parte motiva, potranno
rilevare al fine di escludere la punibilità solo l’accertata
inadeguata modalità di coltivazione da cui possa evincersi che la
pianta non sarà in grado di realizzare il prodotto finale ovvero un
eventuale risultato finale della coltivazione [verificabile ovviamente
ex post] che non consenta di ritenere il raccolto conforme al normale
tipo botanico o che consenta di apprezzare un raccolto che abbia un
contenuto di principio attivo troppo povero per la utile destinazione
all’uso quale droga.
Questa esatta conclusione inoltre non è ovviamente incompatibile con
la rilevata irrilevanza penale della coltivazione domestica.
Infatti, in tale evenienza, la circostanza che le piante siano
pervenute o no a maturazione e presentino o no del principio attivo
[che sarebbe comunque modestissimo] è irrilevante perché non è sulla
maturazione/non maturazione che si “gioca” la rilevanza penale o no
del fatto: qui, come si è visto, il fatto deve ritenersi penalmente
non significativo per difetto dell’offensività della condotta, perché
in ogni caso il quantitativo di principio anche laddove presente
sarebbe inidoneo a ledere i beni tutelati dalla norma [secondo la
sentenza in commento, la salute individuale o collettiva].
Riferimenti normativi
Art. 73 D.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309
Art. 75 D.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309
Art. 49 c.p.
Cassazione penale, sezioni Unite, sentenza 16 aprile 2020 n. 12348
In tema di reati contro il patrimonio,
il reato previsto dall’art. 640 ter, c.p. (frode informatica), si
consuma nel momento e nel luogo in cui l'agente consegue l'ingiusto
profitto con correlativo danno patrimoniale altrui. Ne consegue che la
competenza territoriale deve essere attribuita al giudice del luogo
dove il reo ha conseguito l'ingiusto profitto e non nel luogo ove ha
sede il sistema informatico oggetto di manipolazione né nel luogo dove
si consuma il depauperamento della persona offesa (Cassazione penale,
sezione II, sentenza 17 marzo 2020, n. 10354).
di Alessio Scarcella - Consigliere della Corte Suprema di Cassazione
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi
Cass. pen. sez. I, n. 36359 del 01/09/2016
Difformi
Cass. pen. sez. III, n. 23798 del 15/06/2012
La Corte di Cassazione si sofferma, con la sentenza in commento, su
una questione che può ritenersi ormai definitivamente risolta nella
giurisprudenza di legittimità, attinente all’identificazione del luogo
in cui si consuma il reato di frode informatica, previsto dall’art.
640-ter, c.p., ciò che rileva ai fini dell’individuazione del giudice
cui spetta la competenza per territorio. La Suprema Corte, in
particolare, in una fattispecie nella quale era stato contestato ad un
soggetto il delitto di frode informatica per aver prelevato
abusivamente la somma di euro 250 dalla carta poste pay della vittima,
accreditandola sulla carta poste pay di un terzo, nella sua
disponibilità, somma che poi prelevava appropriandosene, ha disatteso
la tesi della difesa (secondo cui competente territorialmente a
conoscere del reato era il giudice del luogo ove aveva sede il sistema
informatico oggetto di manipolazione oppure quello del luogo dove si
era consumato il depauperamento della persona offesa), ha diversamente
ritenuto corretta la soluzione dei giudici di merito che avevano
individuato come competente territorialmente il giudice del luogo dove
il reo aveva conseguito l'ingiusto profitto.
Il fatto
La vicenda processuale segue, come anticipato, alla sentenza con cui
la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta in primo
grado ad un soggetto per il reato di frode informatica. Si contestava
al reo di aver abusivamente prelevato la somma di euro 250 dalla carta
poste pay della vittima, accreditandola sulla carta poste pay di un
terzo, nella sua disponibilità, somma che poi prelevava
appropriandosene.
Il ricorso
Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’imputato,
sostenendo, per quanto qui di interesse, che la competenza
territoriale era stata illegittimamente identificata nel luogo dove il
ricorrente aveva conseguito l'ingiusto profitto mentre doveva essere
identificata nel luogo ove aveva sede il sistema informatico oggetto
di manipolazione oppure nel luogo dove si era consumato il
depauperamento della persona offesa.
La decisione della Cassazione
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha
dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato.
È senz’altro utile una sintetica ricognizione normativa della
questione. L'art. 640-ter, c.p. sotto la rubrica «Frode informatica»,
punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da
euro 51 a euro 1.032 la condotta di chiunque, alterando in qualsiasi
modo il funzionamento di un sistema informatico o telematico o
intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati,
informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o
telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto
profitto con altrui danno. La pena è della reclusione da uno a cinque
anni e della multa da euro 309 a euro 1.549 se ricorre una delle
circostanze previste dal numero 1) del secondo comma dell'articolo
640, ovvero se il fatto è commesso con abuso della qualità di
operatore del sistema. La pena è della reclusione da due a sei anni e
della multa da euro 600 a euro 3.000 se il fatto è commesso con furto
o indebito utilizzo dell'identità digitale in danno di uno o più
soggetti. Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo
che ricorra taluna delle circostanze di cui al secondo e terzo comma o
taluna delle circostanze previste dall'articolo 61, primo comma,
numero 5, limitatamente all'aver approfittato di circostanze di
persona, anche in riferimento all'età, e numero 7.
Con particolare riferimento al momento consumativo del reato, la
giurisprudenza di legittimità ormai prevalente e più recente ritiene
che il reato di frode informatica (art. 640 ter c.p.) ha la medesima
struttura e quindi i medesimi elementi costitutivi della truffa, dalla
quale si differenzia solamente perché l'attività fraudolenta
dell'agente investe non la persona (soggetto passivo), di cui difetta
l'induzione in errore, bensì il sistema informatico di pertinenza
della medesima, attraverso la manipolazione di detto sistema. Anche la
frode informatica si consuma, pertanto, nel momento in cui l'agente
consegue l'ingiusto profitto con correlativo danno patrimoniale altrui
(Cass. pen. sez. VI, n. 3065 del 14/12/1999, P.m. e D.V., CED Cass.
214942; Cass. pen. sez. I, n. 36359 del 01/09/2016, Confl. comp. in
proc. V., CED Cass. 268252). Tale giurisprudenza ha definitivamente
superato il risalente indirizzo che identificava il luogo di
consumazione della frode informatica nel luogo in cui veniva eseguita
la attività manipolatoria del sistema (Cass. pen. sez. III, n. 23798
del 15/06/2012, C. e altro, CED Cass. 253633; Cass. pen. sez. II, n.
6958 del 23/02/2011, G. e altri, CED Cass. 249660). Il reato di frode
informatica aggravata, commesso in danno di un ente pubblico, si
consuma invece nel momento in cui il pubblico dipendente infedele
interviene, senza averne titolo, sui dati del sistema informatico,
alterandone, quindi, il funzionamento (Cass. pen. sez. II, 25.1.2011,
n. 6958).
La manipolazione del sistema informatico rappresenta infatti una
modalità "speciale" e tipizzata di espressione dei comportamenti
fraudolenti necessari per integrare la truffa "semplice": si tratta di
una modalità della condotta che non esaurisce e perfeziona l'illecito
che si consuma nel momento dell'ottenimento del profitto, come nella
fattispecie "generale".
Nessun vizio, la Cassazione ha rilevato dunque nella scelta della
Corte d’appello di confermare la legittimità della competenza
territoriale.
Da qui, dunque, l’inammissibilità del ricorso.
Riferimenti normativi:
Art. 640-ter, c.p.
Cassazione penale, sezione II, sentenza 17 marzo 2020, n. 10354
Il nuovo decreto ha rinviato
integralmente l’entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019 inizialmente
prevista per il 15 agosto 2020 per consentire a tutti i soggetti
coinvolti di continuare ad operare secondo una disciplina consolidata
e per permettere al sistema economico di superare la fase più acuta
dell’emergenza economica.
di Ivan Libero Nocera - Avvocato in Torino e professore a contratto
presso l'Università di Brescia
Il nuovo decreto legge “recante disposizioni urgenti per il sostegno
alla liquidità delle imprese e all’esportazione” incide sulla
disciplina delle procedure concorsuali rinviando, tra l’altro,
l’entrata in vigore del Codice della Crisi d'impresa e
dell'Insolvenza.
Invero, l’art. 6 prevede il differimento dell'entrata in vigore del
d.lgs. 14/2019 - prevista originariamente per il 15 agosto 2020 - al
1° settembre 2021.
Tale differimento si unisce a quello, già previsto, con cui si era
differita al 15 febbraio 2021 l’entrata in vigore delle misure di
allerta volte a provocare l’emersione anticipata della crisi delle
imprese.
La Corte di Cassazione, sentenza 27 marzo 2020, n. 7580, esclude la
responsabilità del Condominio per i danni subiti da una condomina,
caduta mentre scendeva una rampa condominiale. Sostiene che nei casi
in cui il danno non sia l'effetto di un dinamismo interno alla cosa in
custodia, di per sé statica e inerte, ma richieda che al modo di
essere della cosa si unisca l'agire umano, per la prova del nesso
causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presentava
un'obiettiva situazione di pericolosità, tale da renderne
potenzialmente dannosa la normale utilizzazione.
di Katia Mascia - Avvocato in Benevento
Nel 2008 una condomina conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di
Avellino, il proprio Condominio, affinchè fosse accertata e dichiarata
la responsabilità di questo, ex art. 2051 c.c., con conseguente sua
condanna al risarcimento dei danni. Affermava di essere caduta
rovinosamente e di aver riportato ferite alla gamba mentre scendeva la
ripida rampa di accesso al piano interrato del condominio, la cui
pavimentazione in cemento era in buona parte dissestata, resa viscida
dalla pioggia e priva di trattamento antiscivolo, nonché di un sistema
di raccolta delle acque piovane.
Si costituiva in giudizio il Condominio, il quale chiedeva il rigetto
della domanda attorea, sostenendo che il sinistro fosse stato
determinato dall’imperizia della donna che, nello scendere, non si era
mantenuta al corrimano, ovvero dal caso fortuito.
Il convenuto ente chiamava in causa la compagnia di assicurazione, al
fine di essere manlevato in caso di soccombenza in giudizio. Questa,
nel costituirsi, chiedeva il rigetto sia della domanda principale, sia
di quella di garanzia.
Nel 2013 il Tribunale campano si pronunciava rigettando la domanda
della condomina, ritenendo non fosse stato dimostrato il nesso di
causalità tra la cosa in custodia e l’evento dannoso e compensando tra
le parti le spese processuali.
La decisione veniva impugnata dinanzi alla Corte di Appello di Napoli,
la quale, nel 2017, confermava la sentenza di prime cure,
modificandola soltanto nella parte relativa alla regolamentazione
delle spese del giudizio di primo grado, le quali venivano poste a
carico dell’attrice.
Avverso la sentenza del giudice di secondo grado la condomina
proponeva ricorso per cassazione, sulla base di sei motivi. Il
Condominio e la compagnia di assicurazione, intimati, non svolgevano
difese.
Ad avviso della ricorrente la Corte territoriale aveva escluso
erroneamente la responsabilità del Condominio - ritenendo mancante la
prova del nesso causale tra l’evento dannoso e la cosa in custodia –
mentre, invece, avrebbe dovuto verificare e valutare la pericolosità
intrinseca della rampa, in base alle proprie caratteristiche, che ne
rendevano potenzialmente pericoloso il normale utilizzo.
La ricorrente affermava che la scivolosità della rampa era stata
confermata dal consulente tecnico di parte, diversamente da quanto
sostenuto dal giudice d’appello, e di aver fatto un uso normale e
consentito della stessa, limitandosi a transitare su di essa. La
sentenza impugnata, dunque, era da ritenersi erronea nella parte in
cui affermava che la condotta imprudente della signora aveva
interrotto il suddetto nesso di causalità. Peraltro la Corte
territoriale aveva affermato la sussistenza di una ridotta capacità
deambulatoria della danneggiata senza alcun elemento probatorio.
I Supremi giudici della legittimità, esaminando congiuntamente questi
motivi di doglianza (i primi tre), giungono a ritenerli infondati.
A loro avviso la Corte territoriale ha operato un corretto richiamo al
principio giurisprudenziale affermato dalla Corte di legittimità,
secondo il quale, sostanzialmente, la responsabilità per i danni
cagionati da cose in custodia, prevista dall'art. 2051 c.c., ha
carattere oggettivo, essendo sufficiente, per la sua configurazione,
la dimostrazione, da parte dell'attore, del verificarsi dell'evento
dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene in custodia. Una
volta provate queste circostanze, il custode, per escludere la propria
responsabilità, ha l'onere di provare il caso fortuito, ossia
l'esistenza di un fattore estraneo che, per il suo carattere di
imprevedibilità e di eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il
nesso causale. Tuttavia, nei casi in cui il danno non sia l'effetto di
un dinamismo interno alla cosa – non sia cioè scatenato dalla sua
struttura o dal suo funzionamento - ma richieda che l'agire umano, in
particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di essere della
cosa, essendo essa di per sé statica e inerte, per la prova del nesso
causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presentava
un'obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto
probabile, se non inevitabile, il danno. In altre parole occorre la
dimostrazione che lo stato dei luoghi presentava peculiarità tali da
renderne potenzialmente dannosa la normale utilizzazione.
La Corte napoletana - ritenendo che la ricorrente non avesse provato
che la caduta fosse avvenuta a causa della presenza di una situazione
di pericolo riconducibile al bene - ha svolto una valutazione di
fatto, correttamente motivata, insindacabile in sede di legittimità.
La ricorrente, inoltre, con i restanti tre motivi di ricorso per
Cassazione (quarto, quinto e sesto), riteneva nullo il capo della
sentenza impugnata, riguardante la sua condanna alle spese del primo
grado di giudizio, in quanto gli appellati (Condominio e compagnia
assicuratrice), che, peraltro, si erano costituiti tardivamente, non
avevano proposto impugnazione incidentale in relazione alla
compensazione delle spese disposta, in primo grado, dal Tribunale di
Avellino.
Il difensore della ricorrente, infatti, alla prima udienza dinanzi
alla Corte napoletana, aveva sollevato l’eccezione di inammissibilità
dell’appello incidentale per tardiva costituzione delle controparti,
che la Corte d’Appello, erroneamente, in modo implicito, aveva
rigettato.
In assenza dell’impugnazione incidentale, peraltro, la Corte
napoletana non avrebbe potuto riformare il capo della decisione di
primo grado relativo alla compensazione delle spese.
I Giudici di piazza Cavour ritengono, quindi, fondate tali motivazioni
addotte dalla ricorrente, affermando che gli appellati, per poter
ottenere la condanna di questa alle spese avrebbero dovuto presentare
un autonomo ricorso, con specifici motivi, ai sensi dell’art. 342
c.p.c. e non limitarsi, invece, a una semplice richiesta di riforma
delle spese del giudizio di primo grado.
Pertanto, con la sentenza in oggetto, la Suprema Corte rigetta i primi
tre motivi di ricorso e accoglie il quarto, il quinto e il sesto.
Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiara tardivi
gli appelli incidentali proposti dal Condominio e dalla compagnia
assicuratrice, annullando la condanna alle spese della donna a favore
degli intimati, in quanto non dovute. Compensa altresì tutte le spese
dei diversi gradi di giudizio.
Riferimenti normativi:
Art. 2051 c.c.
Cassazione civile, sez. III., sentenza 27 marzo 2020, n. 7580
* RUSSO G., DELIA D., La donna
autrice e vittima di omicidi: Relazione tenuta al XIX Congresso
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coppia in Italia (1996-2004) Relazione tenuta al Convegno: "Storie di
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Barcellona P.G. (Me) 23 Maggio 2009.
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* RUSSO G., D'ARRIGO P., DELIA D., ROSI N. (2010): Intimate Partner
Femicide (IPF)Fattori di rischio di vittimazione. Analisi multivariata
su tutti i casi di IPF avvenuti in Italia dal 1 Giugno 2004 al 17
Giugno 2010-10-28, Relazione tenuta al XXIV Congresso Nazionale della
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* RUSSO G., DELIA D., D'ARRIGO P., FALDUTO N., (2007), "Homicide
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* RUSSO G., COSENTINO N., DELIA D., D'ARRIGO P., (2008),
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I risultati di questo lavoro sono stati oggetto di una relazione
tenuta al XXI Congresso Nazionale della Società Italiana di
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* RUSSO G., DELIA D., D'ARRIGO P., FALDUTO N. Studio su omicidi
familiari commessi in Italia (1996-2004), (2008) Rassegna Italiana
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* RUSSO G., DELIA D., D'ARRIGO P., COSENTINO N., FALDUTO N., (2008)
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